È proprio vero, non c’è mai fine al peggio! L’anno scorso pensavamo che avessimo toccato il fondo; quest’anno siamo ben oltre! Sarà questo l’anno zero dell’apicoltura? Ma è proprio tutto da buttare? Proviamo a ragionarci su

…ma è proprio tutto da buttare?!

di Marco D’Imperio

È proprio vero, non c’è mai fine al peggio! L’anno scorso pensavamo che avessimo toccato il fondo; quest’anno siamo ben oltre! Sarà questo l’anno zero dell’apicoltura?! A questo punto, per scaramanzia, non azzardiamo più ipotesi e ci prepariamo, per quel che possiamo, al peggio!

Il contesto è quello in cui i cambiamenti climatici non sono più un’ipotesi a medio termine ma un’evidenza tangibile e concreta. Di anno in anno subiamo sempre più l’estremizzazione del clima i cui effetti possono amplificarsi a livello locale con ulteriori danni sul comparto apistico e, a seguire, sull’intero comparto agricolo il quale, va ricordato, beneficia in gran parte delle api come veicolo per l’impollinazione.

Dunque le produzioni sono in drastico calo e le prime stime si attestano su un 50% in meno rispetto a quelle dell’annata precedente (che già non era delle migliori!). Alcune zone d’Italia ed alcune produzioni di mieli uniflorari hanno fatto registrare produzioni pressoché azzerate con inevitabili aumenti dei prezzi all’ingrosso ed al dettaglio.

Ma in questo contesto catastrofico proviamo a trovare qualche appiglio di speranza che, pur sembrando provocatorio, affonda le sue radici su più o meno solide basi scientifiche.

  1.  Gli incendi: abbiamo ancora negli occhi le immagini dei roghi sul Vesuvio e su molte altri parti di Italia. Gli incendi, favoriti dalle alte temperature e dall’assenza di precipitazioni, hanno devastato ettari di vegetazione la quale, in alcuni casi, era giunta nello stadio finale della successione ecologica ovvero quello che si definisce stadio climax (l’equilibrio perfetto!). In altri casi, la vegetazione, pur non essendo nello stadio climax, era in un fragile stato di equilibrio fra le dinamiche naturali ed il “rispettoso” sfruttamento dell’uomo.
    Dunque gli incendi catastrofici hanno provocato danni incalcolabili. Ma è sempre così? L’onestà intellettuale ed il rigore scientifico ci impongono di vedere anche l’altra faccia della medaglia che, sia ben chiaro, non giustifica
    gli atti vandalici né tanto meno compensa gli ingenti danni! Bene, fatte le necessarie premesse, occorre dire che alcune fitocenosi (tipologie di vegetazione) hanno negli incendi NON catastrofici degli importanti fattori di disturbo che hanno il compito di ravvivare la ricchezza floristica. È questo il caso della macchia mediterranea. Alcune delle specie presenti in questo tipo di vegetazione hanno spiccate capacità di resilienza ovvero notevoli capacità di ripresa in seguito ad un disturbo quale il fuoco. Le forme di ripresa possono essere varie: 1) i semi dormienti, per effetto del calore dovuto al fuoco, si spaccano e cominciano il loro processo di germinazione; 2) la ripresa vegetativa mediante la produzione di polloni delle strutture ipogee rimaste intatte. L’effetto complessivo, nell’arco di una o poche stagioni, può essere quello di far regredire la successione e spesso di aumentare il livello di biodiversità (ricchezza in specie ed equilibrio del numero degli individui fra le stesse). Dunque, in alcuni casi (e ribadiamo, solo in alcuni casi!), nei siti colpiti da incendi, ci si può aspettare con tempi differenti, una ripresa rigogliosa della vegetazione con presenza di specie di forte interesse apistico.
  2. I livelli di infestazione della varroa: il grafico mostrato in alto evidenzia come nel periodo di caldo torrido registrato nelle prime settimane di agosto, una sonda posta al centro del nido di una famiglia forte, in un apiario posto nel medio Molise ad un’altitudine di circa 700 m s.l.m., abbia registrato temperature che hanno superato abbondantemente la soglia dei 36 °C ovvero le capacità di termoregolazione delle api. In particolare, nel periodo fra il primo ed il 10 agosto, nelle ore centrali della giornata, sono state registrate, per un intervallo di 3-4 ore consecutive, temperature superiori ai 38 °C con punte di 40 °C.
    Ma quali effetti tali temperature possono aver avuto? Innanzitutto, sebbene le api sopportino bene le alte temperature, è facile immaginare che la covata sia stata sottoposta a condizioni di forte stress termico con conseguente disidratazione. Tali condizioni, se abbinate ad una scarsa o incompleta alimentazione potrebbero
    aver portato alla nascita di api debilitate o addirittura, nei casi più spinti, alla morte delle api nascenti. Del resto, le covate sparse e gli opercoli infossati osservabili nei giorni successivi al grande caldo ne erano la
    dimostrazione.
    Tuttavia, se le api hanno sofferto anche le varroe non se la sono passata poi tanto bene! Sembrerebbe infatti che la varroa soffra le alte temperature e che alcuni cicli di trattamenti termici con temperature di circa
    40°C possano portare ad un sensibile calo del tasso di infestazione. Inoltre, le alte temperature tendono ad ammorbidire la cera dell’opercolo e le api, spinte anche dal forte caldo, tendono ad anticipare la loro nascita di qualche ora accorciando, in tal modo, il ciclo riproduttivo della varroa sotto opercolo che in alcuni casi può rimanere infertile. I bassi livelli di infestazione valutati mediante il metodo dello zucchero a velo, nello stesso apiario a fine agosto, che si attestano su una percentuale media dell’1%, non sono certo una prova ma un mezzo indizio a favore di tale tesi.